di Luca Bianchini e Anna Trombetta

La tradizione d’insegnamento presso i Conservatori di Napoli era unica in tutta Europa. Dalla fine del 1600 c’erano in città quattro Istituzioni musicali che offrivano dei metodi didattici professionali e aggiornati alle ultime tendenze. Si basavano su due aspetti essenziali della musica: il testo cantato e le note.

Le materie di studio

Nei Conservatori ci si preoccupava di istruire l’allievo nel canto, nella composizione, nella pratica strumentale e nell’improvvisazione, ma anche nelle lettere: in grammatica, e in retorica. Insieme a queste discipline la religione aveva una posizione preminente. Attorno a quella ruotava tutto il resto. Lo studio del latino preparava all’uso ragionato dei testi dell’Ordinario e del Proprium della Messa.
Un bravo musicista, formato nei prestigiosi Istituti di Napoli, doveva saper cantare nel modo più appropriato, intonando i testi religiosi, o suonando durante le funzioni.

Una scuola che s’aggiorna

L’ insegnamento professionale dei Conservatori si fondava su tradizioni ben solide e radicate a Napoli.
I contenuti delle materie cambiarono nel corso del Settecento, adattandosi ai gusti che caratterizzano i periodi della storia della musica: dall’Arcadia all’illuminismo, al neoclassicismo, al preromanticismo, agli aneliti decisamente romantici.
La qualità era garantita da una catena ininterrotta di Maestri eccelsi, che si tenevano sempre al passo con i tempi.

Le classi

Gli alunni dei Conservatori erano suddivisi in classi, e in quelle si insegnava a solfeggiare, cantare e realizzare i partimenti. I Maestri spiegavano in dettaglio i segreti di come muovere le parti. E poi veniva la pratica dello strumento, o a fiato, o a corda, sinché il suono della campana non avesse segnato la fine delle attività.

Gli insegnanti

Gli educatori dei Conservatori erano Maestri che s’erano formati anche loro all’interno di quelle stesse istituzioni. Pochi furono gli esterni chiamati a preparare gli allievi.
Quello che sperimentavano a Napoli finiva per far tendenza in tutta Europa.

L’attività febbrile

L’istruzione era impartita oralmente senza bisogno di manuali a stampa. L’eco di quell’attività febbrile, che si sperimentò nei Conservatori di Napoli, rimase impressa nelle centinaia di manoscritti che correvano per le corti d’Europa.

Napoli nella testimonianza dei viaggiatori

Charles Burney, viaggiatore inglese, descrisse la musica di Napoli nell’anno 1770. Pubblicò le sue note in forma di diario col titolo di Viaggio musicale in Italia. Questo appassionato dilettante considerò eccellente il sistema d’insegnamento di Napoli. Egli era venuto in Italia per studiarlo da vicino e poterlo raccontare ai suoi concittadini.

L’importanza del canto

All’inizio era il canto, e chi praticava la musica, sia tastierista, che violinista o flautista lo sapeva bene. Per essere bravo interprete bisognava saper anche cantare. A quello mirava il servizio nelle chiese di Napoli, che gli studenti dei Conservatori dovevano garantire almeno nei giorni di festa. Con quell’attività uno era in grado di riconoscere all’istante le tonalità, i modi e le note.
Non tutti erano dotati allo stesso modo, e tra gli alunni del Conservatorio c’era una certa selezione.

Inutile chiedersi il perché

Oltre al canto, i 3 pilastri fondamentali del metodo napoletano sono lo studio dei partimenti, del contrappunto e delle diminuzioni. Si tratta di materie tra loro complementari, e senza l’una non si dà l’altra.
Come s’intuisce dai termini:
“partimento” riguarda il moto delle parti rappresentate in modo sintetico;
“contrappunto” è la maniera corretta di muoverle nota contro nota;
“diminuzione” è la tecnica di suddividere ulteriormente le parti in segmenti “diminuiti”, ossia ancora più piccoli.
Ultimo giudice era l’orecchio. A importare, più che le fredde regole di teoria, era che le parti suonassero bene assieme, e come insegnavano i Maestri era inutile a volte chiedersi il perché.

Partimento di Giovanni Paisiello
Partimento di Giovanni Paisiello

La prassi esecutiva

I partimenti erano improvvisati. Per variare, gli alunni dei Conservatori scrivevano molte volte lo stesso pezzo cambiando il basso, ornando in modo sempre diverso la melodia. Insomma, non eseguivano una composizione alla stessa maniera due volte di fila. E lo stesso facevano i cantanti in teatro, così che ogni sera la gente andava all’opera per ascoltare musica nuova.
Con i partimenti, il contrappunto e le diminuzioni chiamate anche solfeggi, s’entrava nel campo delle imitazioni, della fuga, dei canoni. E lì non c’era spazio per inventarsi cosa suonare. Ciò che appariva fantasia sfrenata all’amateur, più spesso era il frutto d’una estenuante preparazione.

Le prime nozioni

Nella pratica dei partimenti e del contrappunto le cadenze erano le prime cose da imparare. Non si trattava di semplici successioni di accordi, perché in realtà sono molto di più, e servono a un’infinità di cose come si vede nei nostri corsi.
Per sapere come muovere le parti occorre individuare i gradi e conoscere con esattezza i suoni; per impadronirsi di tonalità maggiori e minori e ben “diminuire” bisogna infine saper cantare.

Una giornata al Conservatorio

Ma come si svolgevano le lezioni a Napoli presso ognuno di quei 4 Conservatori?
I migliori alunni d’ogni corso avevano la possibilità di ascoltare le lezioni dalla bocca dei più celebrati autori del tempo. E lo potevano fare in stanze singole. Agli insegnanti presentavano le cartelle, cioè i compiti, perché fossero corrette.
Con il bagaglio delle nozioni appena apprese, i Mastricielli andavano dai compagni, cosiddetti Figlioli, per trasmettergliele. L’insegnamento avveniva stavolta in aule assai meno tranquille. I testimoni raccontano di stanzoni in cui molti si riunivano assieme a provare.

L’ordine nel caos

Nel 1770 Burney rimase quasi scandalizzato alla vista di quell’ammasso di persone in Sant’Onofrio, uno dei quattro Conservatori. Raccontò nel diario d’aver udito strumentisti coi fiati, con i clavicembali, o i corni che facevano gli esercizi suonando pezzi diversi, uno accanto all’altro e tutti contemporaneamente.
Il caos esteriore che ne derivava favoriva inaspettatamente la concentrazione interiore. In quell’ammasso di suoni e di armonie dissonanti ognuno fissava l’attenzione su quel che doveva fare. I Figlioli erano costretti a suonare forte e con decisione per sentire quel che eseguivano sullo strumento e per non lasciarsi distrarre dagli altri. Fu assai difficile per Burney intuire dove finisse un brano e dove ne cominciasse un altro.

Vita e musica si confondono

In quella stessa sala si suonava e si dormiva, e vita e musica si confondevano l’una con l’altra. Tanto che i letti a volte servivano per appoggiarci sopra gli strumenti. Di ragazzi praticanti Burney ne contò lì dentro una quarantina. I trombettisti del Sant’Onofrio erano costretti, per mancanza di spazio, a esercitarsi sui gradini delle scalinate. Ma lo stesso valeva per gli altri Istituti a Napoli, e non meraviglia che i Figlioli si facessero in quattro pur di farsi notare. In quel sistema di mutuo soccorso ognuno di loro cercava d’essere il migliore. In tal modo una commissione d’esperti li avrebbe scelti e promossi al ruolo di Mastricielli, e con quel titolo avrebbero avuto una stanza tutta per sé e l’attenzione dei migliori insegnanti che allora poteva vantare l’Europa.

Mastricielli e Figlioli

Sopra tutti c’era il Maestro, sotto stavano altri musicisti che lo coadiuvavano, più giù ancora i Mastricielli e quindi i Figlioli. Uno può chiedersi come sia possibile che un Maestro ne potesse educare 200 al tempo stesso, e la risposta sta appunto nel metodo che s’adottava a Napoli. Le informazioni essenziali erano trasmesse da un Maestro a 4 o 5 sottoposti, e da lì a discendere verso i principianti.

Madras

Il fatto che ognuno degli allievi fosse discente e al tempo stesso educatore facilitava la memorizzazione delle regole che era costretto a far proprie per trasmetterle agli altri. Il metodo ingegnoso anticipò quello che si ritenne inventato da Andrew Bell, prete anglicano e pedagogo in Inghilterra, e che consiste anch’esso nel mutuo insegnamento ribattezzato “Madras System Education”.

Madras in India dove Bell inventò il sistema di mutuo insegnamento già praticato a Napoli cento anni prima
Madras in India dove Bell inventò il sistema di mutuo insegnamento
già praticato a Napoli cento anni prima

Bell fu nominato sovraintendente di un orfanotrofio. S’era allora alla fine del Settecento. Egli vide dei bambini di Malabar insegnare agli altri l’alfabeto disegnando le lettere sulla sabbia e se ne meravigliò, traendone spunto. Avesse visitato i Conservatori di Napoli, non avrebbe dovuto aspettare il 1789 per scoprire il nuovo sistema didattico.
Bell decise quindi di imitare quello che facevano i bimbi di Madras. Affidò ai ragazzi più dotati l’educazione di quelli meno brillanti. Sostituì le punizioni con i premi e il suo metodo produsse risultati impressionanti com’era del resto prevedibile. L’avevano ben rodato cent’anni prima a Napoli, nei quattro Conservatori cittadini.

Struttura piramidale

La struttura a piramide dell’insegnamento a Napoli non fu mai autoreferenziale. Guardando ai manoscritti che sono sopravvissuti, i Maestri di Napoli non solo innovarono, ma furono pure attenti a quello che succedeva intorno a loro. Certe intuizioni somigliano da vicino a quello che scrissero più tardi certi Maestri di area tedesca, ad esempio Fux nei trattati teorici. A Napoli, già nei primi anni del Settecento avevano anticipato molte cose del suo Gradus ad parnassum.

Ritorno alle antiche glorie

Durante il Regno di Napoli le istituzioni musicali non si trovarono affatto isolate, ma costituirono un faro di civiltà che illuminò tutta l’Europa. I musicisti stranieri facevano a gara per scendere a Napoli a istruirsi, cercando di cogliere quella scintilla di fantasia mista all’ingegno che caratterizzava la Scuola napoletana.
Nel 1861, per ragioni legate all’agenda politica, quel sistema efficacissimo fu accantonato. Il baricentro della didattica musicale si spostò a Milano, e lì un critico milanese, tale Mazzuccato, come ci ricorda Sanguinetti, ebbe il cattivo gusto d’ironizzare sul “Celeste impero” di Napoli che secondo lui era in pieno disfacimento. In realtà la Scuola di Napoli non sparì mai, semplicemente fu eclissata, ed ora rivive negli studi sui partimenti, in attesa di tornare ai fasti e alle glorie di un tempo.


Gli autori del testo Luca Bianchini e Anna Trombetta sono musicologi, autori di libri sulla storia della musica e su Mozart in particolare.

Indice generale sui partimenti: l’Arte del partimento e della fuga

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